Link raccolti

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Alcuni link per questo lunedì:

Con l’indice alzato a  mo’ di ammonimento, il Corriere segnala una ricerca dell’Associazione Comunicazione PerBene, secondo la quale in televisione si sentirebbe un insulto ogni otto minuti.

Secondo l’analisi ogni 8-10 minuti su uno dei principali canali, si può ascoltare un insulto oppure vedere un dibattito che diventa rissa verbale o che si trasforma in lite. Il tutto aggravato dal fatto, come evidenzia il 75% degli esperti, che questo avviene anche in fascia protetta. Una situazione che giudicano molto rischiosa e che secondo il 64% potrebbe avere serie ripercussioni sui comportamenti quotidiani del pubblico, a partire da bambini e adolescenti che crescono convinti che aggredire e sopraffare gli altri sia normale.

Sul sito dell’associazione Comunicazione PerBene si parla, fra le altre cose, di ecologia della comunicazione in termini piuttosto oscuri.

Su Repubblica un’intervista con Camilleri sulla sua sua carriera, la sua passione per Simenon e il suo linguaggio metà italiano metà siciliano:

Molti scrittori parlano meglio di quanto scrivano, è una vecchia intuizione. “Proprio così. M’era venuta in mente la storia de Il corso delle cose e volevo scrivere. Ma non ci riuscivo. In quel tempo mio padre era malato, passavo le notti con lui e raccontavo il romanzo, alla maniera nostra, in quel misto di dialetto e italiano della piccola borghesia siciliana. Finché non mi venne l’idea: perché non scrivere come raccontavo a mio padre? Lo scrissi in pochissimo tempo e lo consegnai a Niccolò Gallo, grande critico, che mi promise di pubblicarlo entro l’anno. Ma, come direbbe Gadda, subito dopo si rese defunto. Il romanzo aspettò altri dieci anni”. Non era facile far passare quella lingua al vaglio degli editor. A proposito, come sono stati i suoi rapporti con gli editor? “In realtà ne ho avuto uno solo, Gallo, che mi fece una montagna di correzioni, tutte preziosissime. Per il resto, ho continuato di testa mia. Tutti naturalmente mi consigliavano di lasciar perdere quella lingua bastarda. Perfino Leonardo Sciascia mi ripeteva: figlio mio, ma come vuoi che ti capiscano i lettori non siciliani? Ma per me era perfetto. Di una tal cosa l’italiano serviva a esprimere il concetto, della stessa il dialetto descriveva il sentimento”.

Nel  Guardian e The Independent si ricorda llo scrittore  J.G. Ballard, scomparso ieri all’età di 78 anni. Ballard era, fra l’altro, autore di Empire of the Sun (Impero del sole). Anche La Stampa rende tributo allo scrittore, definendolo il profeta dei nostri incubi:

Aveva settantotto anni, Ballard: era nato nel 1930. Ma non nell’Inghilterra madrepatria, che conobbe solo nel ’46, a guerra finita, quando lui era già grande, bensì a Shanghai, dove i genitori erano andati e vivere. Un ragazzino abituato a vivere in una casetta stile cottage con dieci servitori cinesi, si trovava poi a uscir per strada, appena adolescente, e assisteva allo spettacolo meticcio di una città di per sé «iperreale», assai prima che lui cominciasse a scrivere: miscuglio tra gangster e straccioni, prostitute russe, una proporzione tra bar e bordelli sostanzialmente pari… Al momento dell’invasione giapponese tutto si rompe, verrà Pearl Harbor, verrà la prigionia di Ballard chiuso due anni nel campo d’internamento, storie che decenni dopo ispireranno il romanzo L’impero del sole, dal quale Steven Spielberg nell’84 ha tratto un film sceneggiato da Tom Stoppard. Diranno: lo scrittore apocalittico è nato lì. O forse ha ragione Martin Amis: «Semplicemente, l’Impero del sole dà forma a ciò che gli aveva dato forma».

Sempre La Stampa pubblica un’intervista molto leggera con l’autore francese Daniel Pennac incentrata soprattutto sulla sua passione per la penna stilografica (e, di riflesso, la scrittura).

Pennac, nomen est omen. L’amore per la penna stilografica continua?
«Ho un fratello generosissimo. Che riempiva i famigliari di meravigliosi regali. A me donò una penna stilografica. È nel mio studio da 46 anni, assieme all’apposito calamaio. Da 46 anni la uso per depositare sulla carta pensieri, appunti, per disegnare e scarabocchiare. Per le lettere agli amici, perché preferisco l’inchiostro alla mail. Per riempire agende e taccuini di appunti durante il giorno, che alla fine diventano la metafora del tempo passato, della vita che è stata vissuta. È la compagna più intima dei miei pensieri, dei miei sogni, delle mie paure. La uso per scrivere quando non ho la forza di scrivere».

Bell’articolo (anche se non so quanto attendibile) del NY Times sul paragone fra l’editoria dell’antica Roma e quella attuale:

Like Martial, most Roman writers knew that the profits of their writing ended up in the pockets of the booksellers, who often combined retail trade with a copying business — and so were, in effect, publishers and distributors too. At best, the author received only a lump sum from the seller for the rights to copy his work (though once the text was “out,” there was no way of stopping pirated copies). Horace, the tame poet of the emperor Augustus, made the obvious comparison: booksellers were the rich pimps of Roman publishing and authors, or even the books themselves, were the hard-working but humiliated prostitutes. He refers to his slim volume of poetry being “on the game, all tarted up with the cosmetics of Sosius & Co.,” his publishers. Not that Horace did so badly from his writing. In the absence of royalties he was, like most of the best-known authors in Rome, taken under the wing of a patron. In fact, Maecenas, Augustus’ unofficial minister of culture, set him up in a house.

Postato da: IM

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