Dalla fame alla fama, passando per il Giappone.

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Nonostante il ritardo della mia richiesta (i libri in palio erano destinati ai primi dieci visitatori-lettori del blog Redazione Voland, e io ero soltanto quattordicesima o giù di lì), la gentilissima “editora” Daniela ha voluto lo stesso omaggiarmi di una gustosa anteprima: l’ultimo romanzo di un’autrice che non mi lascia mai indifferente. Divorato in un solo pomeriggio.

Spietata ed esatta come la spada di un samurai, ma calda e avvolgente come un kotatsu, la scrittura di Amélie Nothomb rievoca stavolta gli incanti e le bizzarrie dell’amato Giappone attraverso gli stupori e i tremori di un fidanzamento vissuto con tutta l’incoscienza dei vent’anni.

Subito risucchiati dalla curiosità nei riguardi dell’intreccio e da una subdola semplicità stilistica, i lettori si perdono negli sviluppi di una relazione vivisezionata da Amélie nei suoi momenti topici – il primo incontro, il corteggiamento, il coinvolgimento, la fuga.

Presenza costante, come spesso nei romanzi della nostra autrice, il cibo: piacere supremo, cieco ed egoistico, gustoso contrappunto simbolico alla storia d’amore con Rinri-Cristo, l’agnello sacrificale della relazione. Il momento in cui Amélie affonda le mani in un’improbabile, plastificata foundue japonaise, pregiudicando ulteriori assaggi, dà al ragazzo il pretesto per grattarle via dalle mani con morsi delicati il formaggio-colla: un primo contatto fisico che segna l’inizio della loro relazione. Qui il cibo è ancora un piacere condiviso. Molto più avanti nel romanzo, però, i frutti ghiacciati dei cachi dal gusto di “sorbetto alle pietre preziose” che Rinri raccoglie per lei durante una gita romantica verranno divorati da Amélie in una trance animalesca, bruscamente interrotta da una proposta di matrimonio e dalla consapevolezza di non aver offerto neanche una di quelle leccornie al suo fidanzato.

Il piacere non dovrebbe mai essere turbato dai doveri, sembra volerci dire l’ingorda protagonista. Tra questi ultimi, quello della conversazione, un’invenzione tutta giapponese a sentire l’autrice, che in un episodio esilarante si ritrova suo malgrado a dover intrattenere gli amici del suo ragazzo, discettando di birra belga mentre loro in perfetto silenzio divorano manicaretti raffinatissimi; per poi tornare ad essere, fuori dalla sala da pranzo, dei semplici ventenni che si mettono “a chiacchierare nel modo più naturale del mondo, a ridere, ad ascoltare Freddy Mercury fumando, a sbracarsi con le gambe aperte”.

L’aspetto rituale dell’alimentazione è ammirato ed avversato anche da Rinri che, se da un lato se ne sta spesso e volentieri tra i fornelli a preparare pietanze deliziosamente complicate, dall’altro disprezza il sushi per la sua aura salutista-familista, divora salame spalmato di maionese e una carbonara fatta con “tutte le varietà di sostanze grasse catalogate sul pianeta nel 1989”.

E’ invece il gusto più improvvisato e allo stesso tempo tradizionale della cucina giapponese, espresso in piatti come gli okonomiyaki (tanto amati e spesso citati anche da un’autrice molto lontana dalla nostra come Banana Yoshimoto), che unisce Amélie e Rinri durante la loro prima uscita insieme e in quelle da fidanzati.

Troppa bontà, però, rischia di venire a noia. Soprattutto quella del suo ragazzo, che interpreta con preoccupante serietà il suo ruolo di koibito, “colui con il quale si prova diletto”, piacevole e innocuo passatempo; mentre invece, afferma Amélie, “ci si innamora di persone che non si sopportano, di persone che rappresentano un pericolo insostenibile”.

E un pericolo, infine, si profila all’orizzonte, preannunciato da una disavventura gastronomica: servito con grandi cerimonie da cameriere tanto sadiche quanto raffinate, un polpo appena decapitato ma ancora vivo si attacca alla lingua di una terrorizzata Amélie. La sensazione soffocante che ne deriva verrà, dopo poche pagine, paragonata alla proposta di matrimonio di Rinri.

Struggente l’epilogo, con Amélie che dopo anni dalla sua fuga a bordo di un aereo-Pegaso, torna in Giappone in veste di scrittrice affermata e (in una scena che ricorda quella iniziale del film Before Sunset) ritrova al cocktail di presentazione del suo libro il suo ex fidanzato, sempre gentile e delicato, ma anche sposato e ingrassato di trenta chili. Una metamorfosi per la quale Amélie si sente in colpa, forse riflettendo sul fatto che “il cento per cento delle persone che hanno giocato un ruolo importante nella mia vita erano magre”. Ma con le persone a cui si è voluto bene “non è mai finita”, così le lacrime e le emozioni che lei non ha versato per la loro non-rottura spuntano dopo aver ricevuto da Rinri “l’abbraccio fraterno del samurai”.

Il sentimento eterno e numinoso della fratellanza, evocato più volte nei confronti del Monte Fuji (che l’autrice durante una gita ascende e discende di corsa con impeto zarathustriano), o espresso nei borborigmi animaleschi che Amélie scambia con la simbiotica sorella Juliette ad ogni loro rivedersi, sovrasta la temporalità e le oscurità di “una stupida storia d’amore” qualsiasi.

E’ da questa limitatezza che la nostra autrice scappava sette anni prima, correndo incontro a Sorella Scrittura. La fuga da una probabile vita familiare in Giappone coinciderà con l’inizio, nel ritrovato Belgio, di una vita artistica che sappiamo molto feconda: Amélie passerà dunque dalla “fame” (di cibo, esotismo, esperienze) alla fama, diventando finalmente persona-personaggio, “né di Eva né di Adamo”.

Sono molti altri gli ingredienti di questa storia agrodolce: mitici, comici, cinematografici, letterari… Amélie, leggendaria ed esclusiva divoratrice di cioccolato bianco e banane sfatte, ha saputo creare un impasto armonioso, ricco di gusti; sta adesso ai lettori assaporarlo e scovare i loro preferiti. Bon appetit!

Amélie Nothomb, “Né di Eva né di Adamo”, edizioni Voland, da oggi in libreria.

 

Postato da: FDM

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